domiciliarità e assistenza domiciliare
“PRENDERSI CURA” e DOMICILIARITA’.
Che cosa intendiamo per “domiciliarità”.
“Domiciliarità” non è una situazione precisa, non è una prestazione, non è uno stato, un modo di essere: “domiciliarità” è una “cultura” cioè è fatta di saperi, di conoscenze che ispirano comportamenti, modi di fare e modi di essere che modificano la persona, la costruiscono, le danno una identità precisa che la differenzia da tutte le altre persone, anche della sua stessa famiglia, entra nel suo DNA. “Prendersi cura” della persona non potrà tralasciare questo aspetto e le sue conseguenze.
“Per “domiciliarità”si intende quel contesto significativo per la persona, che comprende la casa, ma anche ciò che la circonda, cioè l’habitat collegato alla storia, all’esperienza, alla cultura, alla memoria, al paesaggio, alla gioia e alla sofferenza di ognuno.
Credere in questa cultura significherà anzitutto assumersi, da parte dei servizi alla persona, un impegno di politica sociale, di supporto formativo e informativo ad ogni livello, compreso quello amministrativo.
In secondo luogo significa offrire nei vari percorsi formativi per gli operatori che sono più a contatto, anche per durata di tempo, e per particolari prestazioni che invadono “l’intimità” delle persone e quindi favoriscono maggiore confidenza e fiducia, sarà necessario offrire a questi operatori una particolare attenzione perché sappiano cogliere nella “domiciliarità” un diritto fondamentale della persona. Penso in particolare agli operatori socio-sanitari (OSS), agli infermieri, ai medici di base: deve esistere un momento formativo in cui si approfondisca questo concetto e la sua importanza per la tutela della integrità della persona, a qualsiasi età e in qualsiasi situazione. La persona in difficoltà, anziana e non, in molte più situazioni di quanto non avvenga oggi, potrebbe avere il rispetto del diritto alla domiciliarità, se lo desidera – qualora sul territorio fosse attivata la ”rete di risorse” come supporto alla garanzia di domiciliarità, nei confronti della persona e della famiglia.
Occorre pertanto un forte impegno della comunità locale in tal senso, al fine di attivare concretamente risposte a sostegno del rispetto della domiciliarità con una politica più complessiva correlata alla globalità della salute e dello star meglio possibile.”
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La domiciliarità è un diritto fondamentale della persona.
Quando diciamo “diritto fondamentale della persona” vogliamo dire che qualora questo diritto non venga mantenuto, la persona viene mutilata: esattamente come quando una persona è in coma, o come quando, per un incidente, ad una persona viene amputata una gamba o un braccio. Senza quel contesto di relazioni, senza la “domiciliarità” così come l’abbiamo intesa, la persona non è più “intera”, è mutilata.
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Argomenti scientifici.
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Tutte le teorie che cercano di studiare “la persona” sono concordi nel riconoscerle tre caratteristiche fondamentali: la sua unicità, la sua globalità e la sua relazionalità. Il concetto di persona richiama pertanto la visione olistica del bisogno (il bisogno di una persona incide sulla persona sia esso un bisogno fisico, o psichico o relazionale) e richiede, quindi, una risposta olistica (alla persona intera!) da parte del servizio o di chi si prende cura e non potrà ridursi ad una serie più e meno complessa di prestazioni.
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Maslow nella sua opera “MOTIVAZIONE E PERSONALITà” (Armando ed. 1990, pag. 94 e ss.) sottolinea con forza che il bisogno di sicurezza (dall’autore considerato il secondo bisogno dopo la fame) espresso nella “ricerca di stabilità e sicurezza nel mondo, appaiono, nella comune preferenza, per le cose familiari rispetto a quelle non familiari, per le cose conosciute rispetto a quelle non conosciute”. Le considerazioni che l’autore fa, se riportate alle situazioni di istituzionalizzazione, ci aiutano a comprendere le reazioni di aggressività (= rifiuto di tutto, con ogni forma di violenza) o di rassegnazione (= lasciarsi morire a poco a poco), tipiche delle persone collocate in istituti contro la loro volontà e quindi in situazione di insicurezza totale, dovendo fare i conti con persone, ambiente, situazioni non conosciute.
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Maslow esamina poi il terzo bisogno, “Il sentimento di appartenenza e il bisogno di affetto”: ”Essa (la persona) non desidera solo relazioni di affetto con persone in generale, ma desidera un posto nel suo gruppo o nella sua famiglia e cerca intensamente di realizzare questo scopo. Essa cerca di raggiungere un tal posto più di qualsiasi altra cosa e può anche dimenticarsi di quando era affamato e disprezzava l’amore come qualcosa di irreale, di non necessario o di non importante. Adesso egli sente acutamente il dolore della solitudine, dell’ostracismo, della reiezione, dell’assenza di amici o della spietatezza … La letteratura sociologica, continua Maslow, ci presenta gli effetti negativi che hanno sui bambini gli spostamenti troppo frequenti, i disorientamenti, l’eccessiva mobilità imposta dall’industrializzazione, la mancanza di radici delle proprie origini (“strappare le grandi radici dei vecchi”dirà Bobbio!), e del proprio gruppo, il venire strappato dalla propria casa e dalla propria famiglia, dai propri amici e dai propri vicini, l’essere un estraneo, uno di passaggio e non uno del posto (il Papa dirà la dove uno è “di casa”!)”. Ancora oggi, prosegue Maslow,sottovalutiamo la grande importanza del proprio territorio, del proprio clan,della propria “stirpe”, della propria classe…”
Se questo vale per l’adulto “normale”, vale molto di più per il vecchio o per il minore , o per il disabile in quanto sono meno forti nel superare le difficoltà. Questo semplice riferimento a Maslow, del quale si può anche non condividere tutta la sua teoria dei bisogni della persona, unito alle riflessioni di Gofmann (il sociologo che ha approfondito ciò che capita alla persona nelle istituzioni totali), sottolineano la necessità di riflettere su questo problema, in particolare da parte di coloro che operano nei servizi alla persona, ma anche da parte dei politici ed amministratori che spesso decidono, sulla pelle degli altri, dove e come, indirizzare le risorse.
Anche il concetto di salute richiama fortemente l’importanza dei legami e delle relazioni della persona come fondamentali per il suo stato di bene-essere. Il concetto di salute, recentemente riproposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come equilibrio di relazioni, così come in un seminario della Zancan di Padova (1985) si definì appunto SALUTE come ricerca di equilibrio di relazioni fisiche, psichiche e sociali della persona con se stessa e con l’ambiente che la circonda”, ripropone con forza la componente habitat come elemento fondamentale della costruzione della salute della persona.
2.“PRENDERSI CURA” e DOMICILIARITA’.
Gli effetti della istituzionalizzazione sulla persona.
Marilù Vandelli, fisioterapista e psicologa, una delle prime animatrici nelle strutture per anziani a Modena, nel suo libro “I FIORI DI SATURNO”(ed.Artestampa – Modena, 1993) riporta, dal Sociologo Erving Goffman ( Asylums, Torino 1968, Einaudi), cinque situazioni critiche che si vengono a creare nelle strutture che accolgono le persone con difficoltà (istituti, ricoveri, manicomi, case di riposo) situazioni tipiche delle strutture “TOTALI”.
Queste riflessioni sono state approfondite da Franco Basaglia e recentemente dai sociologi Renato Curcio e Nicola Valentino ( Nel bosco di Bistorco ed. Sensibili alle foglie, Roma 1990. e negli ultimi anni lo studio dal titolo Nella città di Erech, ed. Sensibili alle foglie, Dogliani Cn, 2001).
1. In primo luogo, la rottura delle barriere che separano abitualmente le sfere di vita del lavoro, dell’esistenza quotidiana e del divertimento:un individuo non internato, dorme, lavora ed esplicita la sua vita di relazione in luoghi diversi, con persone diverse, in buona parte scelte da lui, con diversi codici di comportamento e senza alcuno schema razionale di carattere globale. Nell’istituzione totale, al contrario, tutti gi aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa unica autorità”.
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Un secondo elemento è lo spazio individuale, che nella istituzione totale viene più o meno gravemente soppresso: le attività quotidiane, in quasi tutte le loro fasi, si svolgono in stretto contatto di un grande numero di persone e, sottolinea Goffman, trattate tutte allo stesso modo e sostanzialmente obbligate a fare le medesime cose.
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Terzo fattore, il ritmo delle attività giornaliere è prestabilito ed in genere imposto dall’alto da un insieme di regole formali esplicite nonché da un gruppo di “addetti” alla loro esecuzione (gli operatori vari).
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Inoltre le varie attività seguono di solito una organizzazione pianificata secondo un complessivo disegno razionale, allo scopo di adempiere alle finalità ufficialmente dichiarate dalla Istituzione.
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Da ultimo ricordiamo la distinzione tra gli individui che popolano l’istituzione totale, tra un grande gruppo di persone “controllate” e un piccolo staff che lo controlla. Tra i due gruppi intercorrono differenze radicali: I”controllati” vivono pressoché sempre all’interno dell’istituzione, con scarsi o nulli contatti, come manicomi e ospizi, con il mondo esterno, a differenza dei “controllori” socialmente integrati e che per lo più prestano nell’istituzione un servizio giornaliero di otto ore; la distanza culturale e sociale tra i due gruppi è spesso notevole, e altrettanto vale per l’autorità e il potere effettivo di cui i due gruppi dispongono; la possibilità di comunicazione tra i due gruppi e il passaggio delle informazioni è considerevolmente limitato. Questa descrizione si configura, con le dovute precisazioni, a un numero elevato delle strutture protette esistenti. Si spiega qui, in questo schema che prevede di “dover manipolare” molti bisogni umani per mezzo dell’organizzazione burocratica di intere masse di persone, la ragione per cui le strutture protette si sottraggono così difficilmente alle implicazioni tipiche delle istituzioni totali, e in primo luogo, la frustrazione per l’impedimento dell’espressione del SE’, dell’identità unica di ogni persona. Pochi condizionamenti sono inoltre lesivi del sentimento del sé come la violazione della difesa del proprio mondo privato. Tutto lo staff conosce tutto, compresi i fatti più “screditanti”, il passato e il presente e condiziona, in base a questo, anche il futuro della persona. Goffman definisce questa situazione “esposizione contaminante”: “ Sappiamo benissimo che la situazione oggi presenta alcuni miglioramenti all’interno di alcune poche strutture, crediamo tuttavia che se non viene tutelata primariamente la libera scelta della persona troveremo gabbie d’oro, ma sempre gabbie”.
Sono molto forti le espressioni degli studiosi al riguardo, non possiamo fare finta di non saperlo. Una per tutte:
“Quando ad un corpo vengono sottratte le stimolazioni relazionali sociali ed ambientali indispensabili al suo volo, esso viene toccato nel cuore stesso della sua umanità e, dunque, irreversibilmente mutilato e ferito.”
3) Testimonianze:
E’ evidente il beneficio che porta alla persona la propria “casa”, intesa, come si dice a Bottega, “l’intero e l’intorno della persona”. E’ una esperienza comune della nostra vita: la casa è la nostra immagine. Citiamo solo tre testi che descrivono bene i nostri sentimenti se, per un attimo , chiudendo gli occhi, ci immaginiamo nell’auto, forse del nostro figlio o di un nipote, che ci porta in istituto, per sempre…
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La prima riflessione è tratta da un seminario del Centro studi della Zancan di Padova, documento che poi è diventato La carta dei diritti degli anziani non auto-sufficienti:
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Chi ci dà il diritto… di mandarlo via da casa, “per il suo bene”?
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…di fare pressioni perché decida quello che vogliamo noi?
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…di farlo vivere in un ambiente anonimo, squallido, dove si perdono identità e riferimenti?
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…di farlo vivere in una “caserma”, dove ci si perde perché le stanze sono tutte uguali?
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Chi ci dà diritto di non dargli ascolto quando esprime il suo parere sulle cose che lo riguardano direttamente?
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… di dimenticarci che è una persona sempre, nonostante sia vecchio?
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… di non aiutarlo a mantenere lo stato di salute che gli resta?
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Chi ci dà diritto di rompere rapporti, legami, canali che lo tenevano vivo dentro questo mondo?
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… di trascurare la sua preferenza di vivere a casa?
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… di non considerare che abbandonare la casa, per molti vuol dire morire prima?
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… di non capire che tornare a casa, ed essere curati è spesso un modo per vivere meglio e più a lungo?
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Chi ci dà diritto di non mandare a casa lo specialista di cui ha bisogno, costringendolo all’ospedale, quando al domicilio avremmo risultati migliori?
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… di non far nulla, o poco, o meno, perché “tanto è vecchio”?
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… di dirgli di “no” anche quando potremmo dirgli di “si”?
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La seconda riflessione è contenuta in una lettera del Prof. Norberto Bobbio, un grande personaggio della vita italiana: “Ho la fortuna di vivere in casa mia, dove abito da tanti anni, e che potrei percorrere da cima a fondo a occhi chiusi… siedo al mio tavolo, dove ritrovo ogni giorno le mie carte…, il libro che avevo cominciato a leggere…, la mia vecchia penna stilografica, il blocchetto di appunti… Lo spazio della casa è tanto più essenziale, quanto più un vecchio come me, e come tanti altri nelle mie condizioni, vi conducono la propria esistenza… La propria casa dà sicurezza, ti difende dal non conosciuto, dall’imprevisto, dal trovarti in un mondo che ormai, chiuso tra le pareti, ti è diventato sempre più estraneo.
Tanto più si è vecchi tanto più sono profonde le radici, e quindi tanto più è difficile da sopportare lo sradicamento, l’andare altrove, dove saresti spaesato, perderesti la tua identità, diventeresti un numero in mezzo ad altri numeri”(1998).
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Il Papa, nella sua lettera agli anziani (1999), tra le molte cose suggerite, che le Comunità Cristiane dovrebbero forse meditare di più, sostiene la preziosa risorsa del vecchio per la società, risorsa di cui tutti potremmo arricchirci, e afferma:
“Il luogo più naturale per vivere la condizione di anzianità resta quello dell’ambiente in cui egli è <<di casa>>, tra parenti conoscenti ed amici, e dove può svolgere ancora qualche servizio. A mano a mano che, con l’allungamento medio della vita, la fascia degli anziani cresce, diventerà sempre più urgente promuovere questa cultura di una anzianità accolta e valorizzata, non relegata ai margini. L’ideale resta la permanenza dell’anziano in famiglia con la garanzia di efficaci aiuti sociali rispetto ai bisogni crescenti che l’età e la malattia comportano.” Restare a casa non ha solo un significato materiale, rituale: il Papa lo ricorda, e la realtà che ci circonda lo esige: è necessario “garantire efficaci aiuti sociali rispetto ai bisogni crescenti che l’età e la malattia comportano”.
“PRENDERSI CURA” e DOMICILIARITA’.
3. La domiciliarità è un impegno responsabile.
Mantenere fedeltà al diritto alla domiciliarità porta con se un grave impegno di responsabilità legato a chi aiuta a difendere questo diritto alla domiciliarità e, in primo luogo, la famiglia. Questa considerazione apre un capitolo di estrema importanza e merita una trattazione a se.Il sostegno sociale alla famiglia che tutela il diritto alla domiciliarità dei suoi membri è un impegno della società e dei servizi.
3.1 La mappa delle opportunità o rete di sostegno a chi aiuta.
3.2 Un documento del Dipartimento ricerche gerontologiche.
“L’assistenza ad un anziano malato non autosufficiente, conferma una recentissima ricerca del Dipartimento ricerche gerontologiche, richiede ai familiari che se ne occupano un continuo impegno fisico ed emotivo, con svolgimento di compiti e mansioni a volte difficili e complessi.
La famiglia quindi, se da un lato protegge e difende l’anziano debole, dall’altro manifesta una forte domanda di aiuto e tutela, al fine di prevenire possibili patologie connesse al “prendersi cura”, quali stress, ansia e depressione, sintomi di un carico assistenziale pesante da sostenere, in parte anche legato al conflitto tra esigenze dell’anziano che assiste ed aspirazioni personali di colui che “si prende cura”. Penso al bisogno di riposo, di svago, di coltivare interessi, di vivere un periodo di ferie con la propria famiglia.
Tali considerazioni ovviamente si complicano nel caso di un anziano affetto da demenza, quando i familiari devono sopportare un pesante stress derivante dalla necessità di prendersi cura e controllare un soggetto affetto da gravi alterazioni mentali e comportamentali, un forte impatto sullo stile di vita di questo familiare.
Altro aspetto da evidenziare è come l’assistenza familiare all’anziano sia in concreto un’attività di quasi esclusiva competenza femminile scontrandosi in maniera sempre più incidente, con l’accresciuta partecipazione delle donne al “lavoro retribuito”, un impegno che, proprio per questa difficoltà di conciliazione, continua a mantenere per molte di loro – e non sempre per libera scelta – i connotati della marginalità, della brevità e della discontinuità. E’ urgente intervenire da parte del sistema pubblico che si deve far carico di questi problemi così come molti documenti ufficiali da tempo propongono.
“Sono interventi che debbono essere realizzati in integrazione tra servizi sanitari e socio-assistenziali. E’ urgente aver chiaro sia di chi necessita assistenza sia di chi la presta, al fine non solo di garantire le condizioni di salute, ma anche di evitare il fallimento delle politiche di intervento sociosanitarie “ufficiali”, che spesso dimenticano di valorizzare adeguatamente queste figure di sostegno, nonostante su di esse facciano in realtà implicitamente affidamento”.
4. “Il progetto Rondine”.
4. 1 Perché un progetto rondine.
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E’ esperienza comune di chi ha fatto lo sforzo di ascoltare, osservare e rivivere le emozioni del mondo dei vecchi, (penso agli operatori attenti, a familiari sensibili, a volontari preparati) percepire che l’istituzionalizzazione, contro la propria volontà, provoca nella persona una “sospensione dalla vita” a causa di un processo di de-personalizzazione che inizia nel momento stesso in cui si entra in struttura; sono stati esaminati a fondo i danni provocati dalle “istituzioni totali” nelle quali sono compresse l’autonomia della persona e la sua autodeterminazione anche negli atti quotidiani della vita. (1)
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E’ altresì evidente il beneficio che porta alla persona la propria “casa” intesa come “l’intero e l’intorno della persona”. Si può descrivere bene i sentimenti se per un attimo, chiudendo gli occhi, ci immaginiamo sull’auto, forse del nostro figlio o di un nipote, che ci porta in istituto, per sempre…
vecchi tanto più sono profonde le radici, e quindi tanto più è difficile da sopportare lo sradicamento, l’andare altrove, dove saresti spaesato, perderesti la tua identità, diventeresti un numero in mezzo ad altri numeri” (1998).
- Una riflessione, che ha dato forza al Progetto rondine, è stata da una parte la constatazione che in struttura vivono persone con un diverso tipo di ”non- autosufficienza”, che condiziona alcune funzioni, ma non tutte; e dall’altra la constatazione che in molte persone rimane costante il “sogno” del ritorno a casa. Quasi tutte le Associazioni per la domiciliarità, andando contro corrente, contro pregiudizi, contro luoghi comuni, si trovano spesso ad operare in un clima di sfida. Anche “il progetto rondine” è stata una sfidalanciata ad istituzioni come Comuni,Asl,Cooperative, Comunità montane, Istituti per anziani, ad operatori Sociali e Sanitari operanti nelle strutture stesse e sul territorio.
4.2 L’organizzazione del Progetto rondine.
1. La prima fase è stata il lancio e la sensibilizzazione locale, sul territorio, del progetto stesso servendoci di un video prodotto con spezzoni di storie di persone, che con funzioni limitate, vivevano caparbiamente a casa loro con un orgoglio contagiante che appariva dalle loro parole e dal loro stile di vita.
2. Nella seconda fase sono state raccolte 14 adesioni di Enti ed è stato costituito un gruppo di lavoroal quale partecipavano obbligatoriamente i rappresentanti dei singoli enti aderenti e altri operatori sensibili al progetto: il gruppo era di 19 persone e si incontrava, nella fase iniziale, una volta ogni quindici giorni, poi una volta la mese ed, in ultimo, ogni sei mesi. Il progetto è stato portato avanti dal gruppo sotto la diretta responsabilità della Presidente della Associazione “La Bottega del Possibile”.
L’adesione al progetto è formalizzata da un impegno firmato dal responsabile dell’ente aderente, per garantire, agli operatori, la possibilità di lavorare serenamente con tempi ed iniziative condivise.
E’ stata formulata una scheda che documentasse l’avvio del progetto contenente la situazione di partenza, sia della persona sia delle risorse disponibili dell’ente promotore, ma anche la rete dei vari servizi esistenti, disponibili a sostenere il progetto.
Un’altra scheda serve a controllare il progetto nel tempo e deve essere compilata ogni tre mesi
Con tempi più lunghi, nel frattempo, si è costruita una scheda di valutazione globale del progetto: è stata applicata a tutti i casi per valutare alcuni parametri, esattamente:
- recupero di autonomia
- livello di soddisfazione personale
- recupero della famiglia come risorsa
- integrazione tra servizi (lavoro di rete)
- coinvolgimento della comunità locale
- aspetto economico
Il gruppo di lavoro, nell’ultimo incontro, ha deciso di fissare un incontro all’anno per fare il punto della situazione dei casi, ma in particolare per valutare l’andamento della cultura della domiciliarità sul territorio e per raccogliere delle “storie di domiciliarità”.
4.3 Elementi di valutazione del progetto.
A che è servito il Progetto Rondine?
- Ha dimostrato che è concretamente possibile far ritorno a casa nel rispetto della volontà degli anziani che lo desiderano;
- A dare concretezza alle nostre speranze rendendo possibili i sogni di persone ospiti di strutture residenziali tormentate dal bisogno di casa;
- A verificare ancora l’utilizzo della casa, come fonte di energia, di recupero di autonomia, della casa intesa come nuovo curante, della casa che spinge “a fare” dà nuove energie;
- A dare risposte concrete al diritto alla domiciliarità, diritto che non può e non deve essere “affievolito;
- A lanciare un segnale concreto culturale e politico di democrazia;
- A sperimentare l’organizzazione di rete nella condivisione di progetti, nell’assunzione di responsabilità al fine di ridare libertà;
- A passare dalle parole ai fatti lanciando un forte messaggio in controtendenza a chi sa soltanto (sovente familiari abbandonati dai servizi e medici inesperti, ma a volte anche gli stessi operatori sociali: assistenti domiciliari e assistenti sociali) proporre il ricovero in casa di riposo come unica soluzione ad un problema che magari esiste, ma che con la collaborazione di tutti e nell’ambito di un lavoro di rete potrebbe forse essere risolto in modo diverso;
- Il “Progetto rondine” ha soprattutto avuto un rilevante valore perché ha diffuso una cultura della libertà in senso lato, impedendo, in molti casi, l’entrata in struttura. Soprattutto a persone, con una grande autonomia, che con pochissimo aiuto potrebbero rimanere a casa propria.
- Non dobbiamo nasconderci, anzi, è necessario sottolineare, fa bene alla nostra società di oggi, grandi esempi di domiciliarità, come quello che ho incontrato in questi giorni. Due settimane fa in un piccolo centro di 4000 abitanti, si è svolto il funerale di una signora affetta dal morbo di Alzheimer: le tre figlie l’hanno assistita per 19 anni, dico 19 anni a domicilio con grossi sacrifici personali, per garantire 24 ore al giorno l’assistenza totale che richiedeva.
Quali difficoltà si contrappongono a chi vuole restare a casa?
Primo: la debolezza dei servizi sociali di territorio: perennemente carenti, sia di personale e a volte anche di organizzazione;scarsamente flessibili e sovente legati a concezioni organizzative più improntate alla burocrazia che all’effettivo servizio dei cittadini; incapaci di gestire le emergenze.
Secondo: il problema della casa:sovente non c’è più e, se c’è, è piena di barriere architettoniche; non è una situazione infrequente, la lontananza dai centri abitati.
Terzo:le barriere culturali. Ma il “Progetto rondine” ha anche messo in evidenza che la stessa struttura può diventare una risorsa, offrendo servizi a domicilio (dai pasti, alla lavanderia) o particolari servizi in casa di riposo (dalla ospitalità notturna alla ospitalità residenziale temporanea di sollievo alla famiglia curante)
I numeri del Progetto rondine.
I numeri non hanno la pretesa di scientificità, ma li proponiamo semplicemente come chiavi di lettura di un fenomeno interessante. Non è stato facile recuperare i dati, soprattutto per i parametri di valutazione, anzitutto perché difficili in sé, ma soprattutto perché chi è tornato a casa con grande sua gioia, spesso, è uscito dal giro dei servizi sociali. Studio sugli indicatori di qualità:
- Recupero di autonomia (dopo i primi tre mesi non è diminuita per nessuno)
- Livello di soddisfazione personale ( il 57% ha espresso il livello massimo;
il 43% ha espresso il livello medio
- Recupero della famiglia come risorsa ( in tutti casi dove era presente ha avuto elementi di recupero)
- Integrazione fra servizi ( nel 70% dei casi l’integrazione è stata la strategia che ha reso possibile il progetto).
- Comunità locale e rete sociale ( solo nel 38 % c’è stato il coinvolgimento di gruppi di volontariato).
- Economia reale sul piano di spesa ( nel 79% c’è stata una diminuzione di spesa; solo nel 13% c’è stato un aumento, quando si è dovuto provvedere ad una nuova casa).
CONCLUSIONE.
Prendersi cura significa anzitutto rispettare la persona e i suoi diritti fondamentali, tra cui è necessario tenere presente il diritto alla domiciliarità, diritto che, come pensiamo di aver dimostrato, non è poi tanto un optional, ma condiziona profondamente la identità della persona: prendersi cura deve partire di lì e favorire ogni forma di aiuto che tuteli questo diritto; abbiamo presentato le reti di solidarietà e la mappa di tutte le opportunità che si possono attivare “prima” (4.1). Se poi si dovrà scegliere l’istituto ricordiamoci che il diritto non è cancellato: la persona si presenta mutilata.
Spesso la giustificazione che si porta per scegliere dove vivere e dove morire al posto delle persona interessata è che “è vecchia”, “non sa più quello che si fa” è sicuramente “per il suo bene”, “sta certamente meglio in struttura che a casa”…
Ebbene ricordiamocelo, ricordiamolo attorno a noi:
La malattia mentale, la vecchiaia, la debolezza fisica, nulla tolgono alla sfera dei diritti della persona, ma anzi aggiungono nuovi diritti:
Il diritto a ricevere cure adeguate, di essere prontamente e correttamente soccorso e tutelato, di essere trattato con maggior cura, attenzione e diligenza.
Più grave è il deterioramento delle capacità fisiche o psichiche, maggiore è il rispetto che si dovrà portare alla persona dell’infermo.
Tribunale di Alba – Giudice Luigi Nannipieri – 1999.
Estratto della relazione presentata dall’Associazione al Seminario promosso dalla fondazione “ZANCAN” di Padova “PRENDERSI CURA NEI SERVIZI ALLE PERSONE. Nuove prospettive a confronto” Malosco, 20-23 luglio 2003.
1Marilù Vandelli, fisioterapista e psicologa, una delle prime animatrici nelle strutture per anziani a Modena, nel suo libro “I FIORI DI SATURNO”(ed.)Artestampa – Modena, 1993, riporta, dal Sociologo Erving Goffman ( Asylums, Torino 1968, Einaudi), cinque situazioni critiche che si vengono a creare nelle strutture che accolgono le persone con difficoltà (istituti, ricoveri, manicomi, case di riposo) situazioni tipiche delle strutture “TOTALI”.
Queste riflessioni sono state approfondite da Franco Basaglia e recentemente dai sociologi Renato Curcio e Nicola Valentino ( Nel bosco di Bistorco ed. Sensibili alle foglie, Roma 1990. e negli ultimi anni lo studio dal titolo Nella città di Erech, ed. Sensibili alle foglie, Dogliani Cn, 2001).